Analizzando il romanzo seguendo l’intreccio, infatti, “Il signor Mani” appare come “una ricerca nello stile dell’estetica della ricezione sul concetto di identità ebraica” . I protagonisti dei dialoghi, infatti, sono, tranne che nel primo, europei che entrano in contatto casuale con diversi membri della famiglia Mani. Anche qui, quindi, l’Europa ha un ruolo fondamentale. Non solo tramite le cosidette voci narranti che, entrando in contatto con i Mani esercitano su di loro un effetto, nella maggior parte dei casi nefasto, ma anche tramite altri personaggi secondari come il console britannico che, nel quinto dialogo, ha su Josef Mani una influenza politico/identitaria affatto trascurabile (pag. 395). Seguendo l’intreccio quindi
Dall’identità israeliana (sarebbe a dire: ebraica normale) della prima interlocutrice nel 1982, il lettore è rimandato all’anomalia dell’identità ebraica nel corso della storia: la definizione razzista dell’ebraicità da parte dei nazisti, il problema della doppia lealtà di un ebreo inglese nel 1918, i dubbi di un ebreo polacco alla fine dell’Ottocento sul sionismo e sull’esistenza di una nazione ebraica e per finire l’ebraismo ortodosso nel 1848.
Sembra importante sottolineare come nella sua analisi, Verhasselt si sia soffermato essenzialmente sul ruolo dei protagonisti dei dialoghi, le voci narranti, seguendo l’ordine dell’intreccio. Usando la sua stessa chiave di lettura ma seguendo un ordine cronologico, si può notare come appaia una sorta di rapporto causa-effetto tra i dialoghi. Dall’ebraismo ortodosso iniziale di Abraham Mani, si passa alla nascita dell’idea nazionale ebraica e ai dubbi riguardo ad essa espressi da Efraim Shapiro. Saranno dubbi simili a questi a bloccare l’immigrazione di un grande numero di ebrei dell’Europa occidentale, che vivevano, nonostante periodici sconvolgimenti come l’affare Dreyfuss, in un clima sociale ancora accettabile. E sarà questo tentativo di assimilazione tra i popoli europei a scatenare la visione razzista dell’ebreo elaborata dai nazisti, che porterà, al suo culmine, alla tragedia della shoah. In conclusione, sarà proprio questa tragedia a dare l’ultimo impulso per la creazione dello stato d’Israele e per la nascita dell’identità ebraica normalizzata.
Questo genere di casualità si ripresenta, in modo molto più elaborato, se si reindirizza l’analisi dai “soggetti” dei dialoghi agli “oggetti”, la famiglia Mani.
Sempre seguendo la fabula, l’inizio del processo si colloca nel 1848 con Abraham e Josef Mani a Gerusalemme. Appare subito simbolica la data, 1848, lo stesso anno di quella “Primavera dei popoli” che sconvolse l’Europa con i suoi moti nazionali borghesi. Anche il nome del primo Mani, Abraham, come il primo patriarca del popolo ebraico, non appare casuale.
Punto cruciale del dialogo è la concezione dell’ebraismo del figlio, Josef:
“Mi sono visto attorniare da Ismaeliti, scuri di pelle e a piedi nudi, alcuni con in testa un fez sgualcito ed altri col capo avvolto in keffyeh nerastre.(…) Ho chiesto attonito
Da quello che emerge da queste parole e rilevando il totale disinteresse verso la religione ebraica di Josef, sembra che la sua concezione dell’ebraismo si avvicini molto a quella espressa dallo stesso Yehoshua nei suoi saggi politici, soprattutto in Elogio della normalità. L’ebraismo diventa una nazionalità assolutamente indipendente dalla religione, l’aggettivo “ebreo” si trasforma in “israeliano” e, di conseguenza, questo implicherebbe la possibilità di cittadini israeliani musulmani, israeliani ebrei o israeliani cristiani.
Questo pensiero, che si distacca nettamente dalla concezione religiosa dell’ebraismo, spaventa il padre, Abraham Mani:
“…un padre preoccupato e in preda al panico e un amico israelita (…), alleati per combattere l’idée fixe, che nella sua appassionata protervia stava per rivoltarsi contro se stessa, di modo che invece di scoprire Ebrei che avevano dimenticato di essere Ebrei, sarebbe divenuto lui stesso, Josef, uno di essi, il prototipo, l’esempio, il modello e l’incitamento agli ostinati.” (p. 437)
Ed è proprio per bloccare i piani del figlio, che intendeva risvegliare gli Ebrei dormienti, ed a causa della vergogna per la sua rinuncia all’ebraismo ortodosso, che Abraham, aiutato dall’Ismaelita, lo uccide.
Come un novello Abramo, posto di fronte alla scelta, decide di ubbidire a una idea di Dio che non gli parla e, per questo, sacrifica il figlio. Oltre a ciò, per salvaguardare la discendenza della famiglia Mani, si accoppia con la moglie ancora vergine di Josef, compiendo un incesto. Questo peccato originale, che si trasmetterà di figlio in figlio e si tradurrà in morti violente, sarà espiato solamente nel primo dialogo, l’ultimo seguendo l’ordine cronologico.
Abraham, continuando nella simbologia, partirà e non tornerà più in terra d’Israele, e, sconvolto dal dubbio se uccidersi o meno, girovagherà fino a giungere all’antica città di Midshakar, di cui l’anagramma in ebraico è Ur Kashdim, la città di nascita del patriarca, dove morirà .
Il quarto dialogo vede come oggetto Moshe Haim Mani, il figlio nato dall’incesto tra Abraham e Tamara. In questa parte compare per la prima volta l’ideologia sionista. In realtà, Moshe Haim, nonostante si rechi al III Congresso Sionista, non sembra particolarmente interessato al progetto nazionale.
Il suo scopo principale sembra essere quello di raccogliere fondi per la sua clinica a Gerusalemme: “…sicuramente cercando di coinvolgerla nella sua clinica con la speranza di estorcerle, all’ultimo momento, una donazione.” (p. 293)
In questo dialogo sembra proprio che la concezione di identità nazionale e politica del Mani sia secondaria ai fini del dialogo e racchiusa metaforicamente nella clinica stessa: “una clinica aperta (…) a tutte le razze, ai fedeli di tutte le religioni…” (p. 314)
Di nuovo sembra balenare un superamento delle identità particolari per approdare a una nuova e più ampia che le possa comprendere tutte. Ma il peccato originale, da cui lui è nato, appare ancora troppo vicino: Mani si avventura in un amore impossibile che, per molti tratti, ha una inquietante somiglianza con quello vissuto dal padre (l’età della ragazza, il colore ramato dei suoi capelli, la sua verginità…). Sarà questo amore, destinato a spegnersi, a condurlo al suicidio.
Sembra interessante sottolineare come la metafora usata da Efraim Shapiro per descrivere l’idea del suicidio “Perché non è possibile che quell’idea non fosse già germogliata in lui da tempo, non fosse stata presente in lui almeno in forma di un ramo secco, riposto in un solco della terra senza nemmeno sapere si essere un seme…” (282) sia la stessa che viene usata nel dialogo precedente come simbolo al concepimento del bambino: “Infatti, non c’era nessun seme, e neppure avrebbe potuto esserci, il seme non poteva sapere di essere seme…”(p. 421)
wow, dove posso trovare tutta la sua bibliografia?
RispondiEliminaelforic