martedì 3 febbraio 2009

La nascita dell'identità politica israeliana -1-

All'interno del romanzo "Il Signor Mani" di A.B. Yehoahsua, è rintracciabile un percorso che, scorrendo in due direzioni, della fabula e dell'intreccio, sembra condurre il lettore attraverso tutti i passi fondamentali che hanno e stanno conducendo verso la sintesi di una identità politica israeliana. Oltre ad essere un epos familiare, nel romanzo emerge fortemente l’analisi dell’evoluzione dell’identità ebraica attraverso la storia della famiglia Mani. Già dalla scelta del cognome del protagonista, Mani, si ha un indizio fondamentale sulla tematica principale del romanzo. Mani, infatti, è un cognome sefardita non particolarmente diffuso ma, se scomposto, si può leggere come “Ma Ani” che, in ebraico, significa “che cosa sono io?” . Ed è questa domanda che pervade il romanzo in tutta la sua evoluzione, una domanda per cui, di primo acchito, non sembra esserci una risposta precisa.
Analizzando il romanzo seguendo l’intreccio, infatti, “Il signor Mani” appare come “una ricerca nello stile dell’estetica della ricezione sul concetto di identità ebraica” . I protagonisti dei dialoghi, infatti, sono, tranne che nel primo, europei che entrano in contatto casuale con diversi membri della famiglia Mani. Anche qui, quindi, l’Europa ha un ruolo fondamentale. Non solo tramite le cosidette voci narranti che, entrando in contatto con i Mani esercitano su di loro un effetto, nella maggior parte dei casi nefasto, ma anche tramite altri personaggi secondari come il console britannico che, nel quinto dialogo, ha su Josef Mani una influenza politico/identitaria affatto trascurabile (pag. 395). Seguendo l’intreccio quindi

Dall’identità israeliana (sarebbe a dire: ebraica normale) della prima interlocutrice nel 1982, il lettore è rimandato all’anomalia dell’identità ebraica nel corso della storia: la definizione razzista dell’ebraicità da parte dei nazisti, il problema della doppia lealtà di un ebreo inglese nel 1918, i dubbi di un ebreo polacco alla fine dell’Ottocento sul sionismo e sull’esistenza di una nazione ebraica e per finire l’ebraismo ortodosso nel 1848.

Sembra importante sottolineare come nella sua analisi, Verhasselt si sia soffermato essenzialmente sul ruolo dei protagonisti dei dialoghi, le voci narranti, seguendo l’ordine dell’intreccio. Usando la sua stessa chiave di lettura ma seguendo un ordine cronologico, si può notare come appaia una sorta di rapporto causa-effetto tra i dialoghi. Dall’ebraismo ortodosso iniziale di Abraham Mani, si passa alla nascita dell’idea nazionale ebraica e ai dubbi riguardo ad essa espressi da Efraim Shapiro. Saranno dubbi simili a questi a bloccare l’immigrazione di un grande numero di ebrei dell’Europa occidentale, che vivevano, nonostante periodici sconvolgimenti come l’affare Dreyfuss, in un clima sociale ancora accettabile. E sarà questo tentativo di assimilazione tra i popoli europei a scatenare la visione razzista dell’ebreo elaborata dai nazisti, che porterà, al suo culmine, alla tragedia della shoah. In conclusione, sarà proprio questa tragedia a dare l’ultimo impulso per la creazione dello stato d’Israele e per la nascita dell’identità ebraica normalizzata.
Questo genere di casualità si ripresenta, in modo molto più elaborato, se si reindirizza l’analisi dai “soggetti” dei dialoghi agli “oggetti”, la famiglia Mani.
Sempre seguendo la fabula, l’inizio del processo si colloca nel 1848 con Abraham e Josef Mani a Gerusalemme. Appare subito simbolica la data, 1848, lo stesso anno di quella “Primavera dei popoli” che sconvolse l’Europa con i suoi moti nazionali borghesi. Anche il nome del primo Mani, Abraham, come il primo patriarca del popolo ebraico, non appare casuale.
Punto cruciale del dialogo è la concezione dell’ebraismo del figlio, Josef:

“Mi sono visto attorniare da Ismaeliti, scuri di pelle e a piedi nudi, alcuni con in testa un fez sgualcito ed altri col capo avvolto in keffyeh nerastre.(…) Ho chiesto attonito .…così mi ha detto. …” (p. 390)

Da quello che emerge da queste parole e rilevando il totale disinteresse verso la religione ebraica di Josef, sembra che la sua concezione dell’ebraismo si avvicini molto a quella espressa dallo stesso Yehoshua nei suoi saggi politici, soprattutto in Elogio della normalità. L’ebraismo diventa una nazionalità assolutamente indipendente dalla religione, l’aggettivo “ebreo” si trasforma in “israeliano” e, di conseguenza, questo implicherebbe la possibilità di cittadini israeliani musulmani, israeliani ebrei o israeliani cristiani.
Questo pensiero, che si distacca nettamente dalla concezione religiosa dell’ebraismo, spaventa il padre, Abraham Mani:

“…un padre preoccupato e in preda al panico e un amico israelita (…), alleati per combattere l’idée fixe, che nella sua appassionata protervia stava per rivoltarsi contro se stessa, di modo che invece di scoprire Ebrei che avevano dimenticato di essere Ebrei, sarebbe divenuto lui stesso, Josef, uno di essi, il prototipo, l’esempio, il modello e l’incitamento agli ostinati.” (p. 437)

Ed è proprio per bloccare i piani del figlio, che intendeva risvegliare gli Ebrei dormienti, ed a causa della vergogna per la sua rinuncia all’ebraismo ortodosso, che Abraham, aiutato dall’Ismaelita, lo uccide.
Come un novello Abramo, posto di fronte alla scelta, decide di ubbidire a una idea di Dio che non gli parla e, per questo, sacrifica il figlio. Oltre a ciò, per salvaguardare la discendenza della famiglia Mani, si accoppia con la moglie ancora vergine di Josef, compiendo un incesto. Questo peccato originale, che si trasmetterà di figlio in figlio e si tradurrà in morti violente, sarà espiato solamente nel primo dialogo, l’ultimo seguendo l’ordine cronologico.
Abraham, continuando nella simbologia, partirà e non tornerà più in terra d’Israele, e, sconvolto dal dubbio se uccidersi o meno, girovagherà fino a giungere all’antica città di Midshakar, di cui l’anagramma in ebraico è Ur Kashdim, la città di nascita del patriarca, dove morirà .

Il quarto dialogo vede come oggetto Moshe Haim Mani, il figlio nato dall’incesto tra Abraham e Tamara. In questa parte compare per la prima volta l’ideologia sionista. In realtà, Moshe Haim, nonostante si rechi al III Congresso Sionista, non sembra particolarmente interessato al progetto nazionale.
Il suo scopo principale sembra essere quello di raccogliere fondi per la sua clinica a Gerusalemme: “…sicuramente cercando di coinvolgerla nella sua clinica con la speranza di estorcerle, all’ultimo momento, una donazione.” (p. 293)
In questo dialogo sembra proprio che la concezione di identità nazionale e politica del Mani sia secondaria ai fini del dialogo e racchiusa metaforicamente nella clinica stessa: “una clinica aperta (…) a tutte le razze, ai fedeli di tutte le religioni…” (p. 314)
Di nuovo sembra balenare un superamento delle identità particolari per approdare a una nuova e più ampia che le possa comprendere tutte. Ma il peccato originale, da cui lui è nato, appare ancora troppo vicino: Mani si avventura in un amore impossibile che, per molti tratti, ha una inquietante somiglianza con quello vissuto dal padre (l’età della ragazza, il colore ramato dei suoi capelli, la sua verginità…). Sarà questo amore, destinato a spegnersi, a condurlo al suicidio.
Sembra interessante sottolineare come la metafora usata da Efraim Shapiro per descrivere l’idea del suicidio “Perché non è possibile che quell’idea non fosse già germogliata in lui da tempo, non fosse stata presente in lui almeno in forma di un ramo secco, riposto in un solco della terra senza nemmeno sapere si essere un seme…” (282) sia la stessa che viene usata nel dialogo precedente come simbolo al concepimento del bambino: “Infatti, non c’era nessun seme, e neppure avrebbe potuto esserci, il seme non poteva sapere di essere seme…”(p. 421)

lunedì 3 novembre 2008

Lo scrittore e la politica

Sin dagli inizi della sua carriera Yehoshua è un intellettuale impegnato in politica. Favorevole al processo di pace con i palestinesi, non è comunque un pacifista tout court.
Una sua intervista, rilasciata il 22 settembre 2008 per il quotidiano La Stampa a firma Farian Sabahi, in cui, a quanto pare avrebbe, dichiarato "L'Iran non è un pericolo per Israele" è diventata la scintilla che ha fatto accendere una polemica "da destra" contro il giornale di Torino e contro il presunto pacifismo esasperato dell'intellettuale israeliano.
Per chi non fosse interessato agli strilli e alla morale da quattro soldi di scribacchini interessati, segnalo questo video, (This is not a Hitler, il primo della colonna video) in cui Yehoshua parla della situazioni iraniane e delle sue possibili soluzioni.

Europa e Israele: una geografia gerosolimitana


Il romanzo “Il signor Mani”, scritto da Yehoshua nel 1990, appare a che scrive come una indagine sull’identità israeliana e personale e sull’impatto che ha avuto su di essa la nascita dello Stato d’Israele nel 1948, individuato come un punto fondamentale di rottura nel percorso conoscitivo sopramenzionato.
Nel romanzo, la contrapposizione ambientale/geografica tra Europa e terra d’Israele, in particolar modo Gerusalemme, è continua ed in continua evoluzione durante gli anni, di pari passo all’evoluzione personale e politico/nazionale dei protagonisti
I punti di vista che Yehoshua adotta per descrivere l’ambiente gerosolimitano appaiono in continua evoluzione. Sembra importante, infatti, denotare come la maggior parte delle descrizioni geografiche nel romanzo ci pervengano da europei in visita a Gerusalemme. Se escludiamo infatti Hagar, giovane israeliana protagonista del primo dialogo, tutte le altre voci esprimono una sorta di disincanto iniziale di fronte al paesaggio gerosolimitano.
Di nuovo, la visione orientalistica biblica e sionista della Terra si scontra con la realtà della Terra stessa, così differente dal sogno e, di primo acchito, nella sua pochezza, imparagonabile alle città europee: “...di fronte al posto chiamato Torre di David, che è una specie di miniatura della Torre di Londra...”(p. 198). E ancora:

…la città, signor colonnello, è piccola e squallida (...) è un luogo estremamente noioso. La popolazione è molto eterogenea, un miscuglio di comunità piccole e chiuse. Da una parte miseria e ignoranza, e dall'altra esaltazione messianica, (...), non esiste alcun nesso fra il nome, famoso in tutto il mondo, di questa città, o i meravigliosi testi che sono stati scritti in questo posto e su questo posto - e la meschina realtà che brulica qui, signor colonnello. (p. 187)

Questa realtà deludente e la relazione tra immagine mitica e paesaggio reale sono presentate nei racconti dei protagonisti e, tramite le domande non riportate dei loro interlocutori, vengono analizzate ed infine superate:
Io mi sono liberato da Gerusalemme, ma coscientemente, mi sono liberato del sogno per il quale voi tutti continuate a lottare, vagando alla cieca fra fantasia e realtà...”(p. 333).

I personaggi vedono la realtà, comprendono il mito e, interiorizzandoli, riformulano una immagine della città ancora differente. Sembra sorgere una Gerusalemme nuova, metafisica, sentimentale, una città concettuale che ha posto nel cuore dell’Ebreo , e che acquisterà nuove caratteristiche, di luce

E' una luce, sì, padre, una luce dentro cui lottano due luci diverse, quella giallastra che fluttua libera dal deserto e quella celeste che nasce dal mare, si arrampica lentamente su per le pendici dei monti e raccoglie il riverbero degli ulivi e delle rocce, finchè si assorbono l'una nell'altra a Gerusalemme, si dominano e si conquistano a vicenda, e verso sera si fondono in una tonalità di vino chiaro che ramo dopo ramo scende giù dagli alberi e diviene un rossore ramato, che a contatto con la cornice della finestra infiamma i fedeli e li fa balzare in piedi nella tonante ne'ilah, che invade il mondo, impietrito fuori, con una immensa invocazione. (p. 340)

e vento

...quel meraviglioso vento che fonde assieme tutti i suoi odori e tutti i suoi sapori, prende un po' di calore dall'acqua stagnante della vasca di Ezechia, vi aggiunge un pizzico dell'aridità dei rovi bruciacchiati nei campi fra le case degli Armeni, raccoglie l'amarognolo dalle fessure delle lapidi incrinate sul Monte degli Ulivi, si avvoltola nell'incenso che svolazza da vicolo a vicolo, e solo ora apprendevo, maestro, che la vera spezia, la spezia del futuro, non sarebbe stata estratta da una radice o da una foglia, da un polline o da un chicco, ma era in quel vento... (p. 410).

Sembra interessante però, a questo punto, proporre un diverso livello di lettura del romanzo; se fino ad ora, infatti, si è analizzato Il signor Mani seguendone l’intreccio del racconto, le cose sembrano cambiare se si segue la fabula, la cronologia dell’albero genealogico, dal quinto al primo dialogo.
Dalla città di vento e luce, attraverso la Gerusalemme orientalistica, si arriva a una Gerusalemme completamente normalizzata, una città israeliana vista dagli occhi di una ragazza israeliana, in cui ormai il paragone con le città europee risulta evanescente, compare solo in un punto e con una valenza quasi positiva: “mi sono trovata come in una città europea” (p. 30).
Rimane in quest’ultimo/primo dialogo la sensazione della frammentarietà dell’identità di cui si è parlato precedentemente; nel rapporto fra Europa e terra d’Israele, la strada verso una normalizzazione sembra essersi compiuta, ma rimangono ancora delle distanze in seno a Israele stesso.
Si assiste quindi ad un cambiamento della focalizzazione: la costruzione dell’identità, sembra essere diventata un processo centripeto, interno alla nuova entità territoriale in cui i personaggi si trovano a vivere.

Bibliografia

La narrativa di A.B. Yehoshua

o 1962 Mot ha-zaqen, sippurim ( “Tutti i racconti”, Torino, Einaudi, 1999, trad. it. di Alessandro Guetta e Alessandra Shomroni. Alcuni racconti erano già stati tradotti in “Il Poeta continua a tacere”, Firenze, la Giuntina 1987, trad. it di Alessandro Guetta e in “Morte del senso e senso della morte”, Firenze, La Giuntina, 1989, trad. it di Emanuela Trevisan Semi)
o 1977 Ha-meahev (“L'amante”, Torino, Einaudi, 1990, trad. it. di Arno Baehr)
o 1982 Gerushim meuharim ( “Divorzio tardivo”, Torino, Einaudi, 1996, trad. it. di Gaio Sciloni)
o 1987 Molcho (“Cinque stagioni”, Torino, Einaudi, 1993, trad. it di Gaio Scaloni)
o 1990 Mar Mani (“Il Signor Mani”, Torino, Einaudi,1994 trad. it. di Gaio Scaloni)
o 1993 Ha-shiva me-Hodu (“Ritorno dall'India”, Torino, Einaudi, 1997, trad. it. di Alesandro Guetta e Elena Loewenthal)
o 1997 Masa el tom ha-elef (“Viaggio alla fine del millennio”, Torino, Einaudi, 1998, trad. it. di Alessandra Shomroni)
o 2001 Ha-Kallah ha-meshahreret (“La sposa liberata”, Torino, Einaudi, 2002, trad. it. di Alessandra Shomroni)
o 2004 Shelihuto shel ha-memuneh al mashave enosh (“Il responsabile delle risorse umane”, Torino, Einaudi, 2004, trad. it. di Alessandra Shomroni)

Saggi

o 1991 "Elogio della normalità "
o 1996 "Diario di una pace fredda" (Articoli)
o 1996 "Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare" (Roma, E/O, trad. it. di Alessandro Guetta)
o 2000 "Il potere terribile di una piccola colpa. Etica e letteratura"


Opere teatrali


o 1975 Layla Be-May (“Una notte di maggio”)
o 1986 Hafatzim (“Possesso”)
o 1992 Tinokot Ha-Layla (“Bambini della notte”) 1992

domenica 2 novembre 2008

Biografia


Credo che, per iniziare a parlare di A.B. Yehoshua e della sua opera, sia necessario iniziare con una biografia.
Al decimo tentativo, dopo essermi accorto di stare costruendo bizzarri copia-incolla da siti più o meno attendibile, ho deciso di postare questa biografia.
Realizzata dalla Professoressa Trevisan -Semi (Università Ca' Foscari di Venezia), la biografia è stata pubblicata in occasione del convegno sull'opera dello scrittore israeliano intitolato "Sguardi Incrociati" (Venezia, 2005) Da questo convegno è stato poi tratto il volume "Leggere Yehoshua" (Einaudi 2007) essenziale per un approccio critico all'opera dello scrittore israeliano.




A. B. Yehoshua è considerato, assieme ad Amos Oz, il maggior e più premiato scrittore israeliano contemporaneo (per l'elenco dei premi ricevuti e i titoli dei romanzi pubblicati vedi la lista che segue). E' da alcuni anni uno dei candidati possibili al premio Nobel per la letteratura. Nato a Gerusalemme nel 1936 da famiglia che per parte paterna risiedeva a Gerusalemme da diverse generazioni e per parte materna da madre che era emigrata dal Marocco è uno scrittore di evidenti origini sefardite che si è successivamente stabilito a Haifa dove è attualmente professore ordinario di letteratura comparata nella locale Università. Assai amato in patria, seguitissimo all'estero dove è noto anche il suo impegno pacifista (membro di Shalom Achshav e impegnato nei processi di pace) Yehoshua rappresenta una figura di intellettuale a tutto campo. Romanziere e saggista, autore anche di racconti e di pièces teatrali è dotato di una ricca vena creativa unita a una solida tecnica del narrare e di una poetica personalissima che è stata definita da G. Morahg "simbolismo realistico" e che è stata ben delineata fin dagli esordi, a partire dal suo primo racconto "Morte del vecchio" (1957) che tradussi e introdussi, a suo tempo, in un saggio (Senso della morte e morte del senso nel primo racconto di A. B. Yehoshua, Firenze, La Giuntina, 1989). La narrativa di Yehoshua è stata tradotta in 22 lingue e da molte delle sue opere sono stati tratti film, messe in scena pièces teatrali e musicate opere. Il romanzo Mar Mani (1990) (Il Signor Mani, Torino, Einaudi,1994 trad. it. di Gaio Sciloni) considerato dalla critica internazionale il suo capolavoro e per il quale gli è stato assegnato il maggior riconoscimento letterario del suo paese, ha dato origine a intere biblioteche di saggi critici. Ha già ottenuto una laurea ad honorem in Italia dall'Università di Torino nel 1999 e, tra gli altri, il premio Grinzane Cavour nel 1994. Ha contribuito all'innovazione delle forme narrative scegliendo formule come quelle del romanzo a più voci in Ha-meahev (1977) (L'amante, Torino, Einaudi, 1990, trad. it. di Arno Baehr) e Gerushim meuharim (1982) (Divorzio tardivo, Torino, Einaudi, 1996, trad. it. di Gaio Sciloni) o del dialogo mancante come in Mar Mani. La famiglia e i conflitti che si sviluppano al suo interno, diviene microcosmo della società israeliana, si veda in particolare Ha-shiva me-Hodu (Ritorno dall' India, Torino, Einaudi, 1997, trad. it. di Alessandro Guetta e Elena Loewenthal). Negli ultimi romanzi Masa el tom ha-elef (1997) (Viaggio alla fine del millennio, Torino, Einaudi, 1998, trad. it. di Alessandra Shomroni), Ha-Kallah ha-meshahreret(2001) (La sposa liberata, Torino, Einaudi, 2002, trad. it. di Alessandra Shomroni) e Shelihuto shel ha-memuneh al mashave enosh (2004) (Il responsabile delle risorse umane, Torino, Einaudi, 2004, trad. it. di Alessandra Shomroni) Yehoshua ha affrontato maggiormente le tematiche della diversità. In Viaggio alla fine del millennio è la diversità degli ebrei del sud (sefarditi/orientali) rispetto agli ebrei del nord (ashkenaziti/europei) che diviene il filo conduttore del romanzo, caratterizzato da una forte carica ironica: il tempo è quello dell'alba del primo millennio nel 998 e la voce è quella degli ebrei del sud più tolleranti di quelli del nord, rigidi e bacchettoni. In La sposa liberata, il protagonista è un professore di storia del Vicino Oriente dell'Università di Haifa, la città più multiculturale che vi sia in Israele chiamato a confrontarsi con la realtà della presenza della comunità araba di cittadinanza israeliana (in particolare gli studenti che frequentano i suoi corsi) e con quella dei territori sullo sfondo dei miti fondanti le diverse identità. Nel corso delle narrazione l'ebraico viene interrotto a più riprese dall'arabo che viene inserito direttamente nel testo determinando sconcerto nel lettore che si trova anch'egli confrontato alla diversità. La struttura circolare eritmica che spesso caratterizza le sue opere conferisce anche a questo romanzo una struttura narrativa ricca di fascino e musicalità che accompagna e rassicura il lettore in questo viaggio assieme al diverso in un tempo, quello della post-modernità nel quale la frammentazione identitaria e la diversità ne sono le peculiarità. Questo romanzo come Il signor Mani sta suscitando una vastissima letturatura critica ed è in corso una trasposizione a livello operistico. Nell'ultimo romanzo, Il responsabile delle risorse umane, il mistero della morte di una lavoratrice immigrata dell'Europa orientale e della quale si conosce poco più che il nome (Yulia Regajev), avvenuta in seguito ad un attentato kamikaze nel centro di Tel Aviv, spinge il protagonista ad una ricerca della vera identità della lavoratrice immigrata, in preda a forti sensi di colpa. E' un romanzo, che come ci richiama il titolo, insiste sull'"umano", sulla necessità di umanità quando la barbarie quotidiana rischia di divenire banalità quotidiana. Nella struttura narrativa, un coro come in una tragedia greca, intercala la narrazione. In quest'ultimo romanzo Yehoshua riprende i temi di eros e thanatos, e li sviluppa fino a spingere il protagonista ad identificarsi totalmente con il corpo della defunta, un motivo già sperimentato in Molcho (1987) (Cinque stagioni, Torino, Einaudi, 1993, trad. it di Gaio Scaloni): solo che in quel caso il protagonista si era identificato con la moglie morta di tumore e nell'ultimo con una immigrata praticamente sconosciuta. Un romanziere che parte dall'analisi di situazioni mutuate dalla quotidianità senza lesinare l'utilizzo di approfondite analisi dei personaggi in chiave psicologica, e a volte anche surreale, in un avvicendarsi di situazioni contrassegnate da una forte carica simbolica e che si pone come coscienza critica dell'Israele contemporaneo.

Emanuela Trevisan Semi
Professore di Lingua e letteratura ebraica moderna e contemporanea
Università di Ca' Foscari di Venezia